Samarcanda è un luogo della mente e dell´anima più che un posto reale con le sue moschee, le selve dei minareti, le scuole coraniche, i mausolei, l´azzurro scintillante delle sue maioliche e delle sue cupole, il blu cobalto degli archi, il turchese delle madrasse. Ma Samarcanda è anche traffico, confusione, rumore, clacson, torme di turisti organizzati, souvenir dozzinali.
A Samarcanda bisogna andarci in macchina, sono quasi cinque ore da Tashkent, un viaggio nel medioevo più arcaico; carretti trainati da somari e carichi fino all´inverosimile vi corrono incontro contromano. Capre, pecore, qualche mucca, cavalli macilenti, biciclette arrugginite, sidecar. Sul ciglio della strada, spesso dissestata, i venditori ambulanti stanno sdraiati su letti di legno in attesa di chi gli compri i pomodori, il miele, le patate, i cachi, le uova. Ai bordi, lungo la piana immensa della steppa, frutteti ma soprattutto campi coltivati a cotone, con centinaia di ragazzi e bambini chini a raccogliere i batuffoli bianchi. E almeno cinque posti di blocco per lo straniero: in media uno ogni ora.
Samarcanda si annuncia come una visione, evocativa e onirica, punto di snodo della Via della Seta (oggi dell´energia), crocevia delle strade che portavano all´Oriente profondo, capitale di imperi, i turchi, gli arabi, i persiani, i mongoli, la furia di Gengis Khan e i fasti del feroce Tamerlano, che la elesse capitale del suo regno sterminato. Alessandro Magno e Marco Polo, il mito e la leggenda.
Entriamo in città. La strada all´improvviso si fa larga e moderna e passa troppo vicino ai ventidue mausolei di Shah-I-Zinda, o “tomba del re vivente», li deturpa, li offende.
Si salgono gli erti gradini che portano alla sommità, su alla collina sacra, dove riposa un cugino di Maometto. I turisti scattano foto, senza interrogarsi su un restauro fin troppo fiammante, senza riuscire a distinguere ciò che è originale e ciò che è ricostruito con fin troppa disinvoltura, a trasformare questi ex ruderi una volta pieni di fascino in un set stile Disneyland dell´Islam.
«Salvami, salvami, grande sovrano, fammi fuggire, fuggire di qua». C´è chi arriva a Samarcanda con le note e le parole di Vecchioni nel cuore. Le carovane, i mercanti, i viaggiatori della steppa, i cammelli.
Con un’idea, un sogno, un miraggio luccicante e ondulato che non potrà corrispondere a nessuna realtà. È l´italiano la lingua più parlata sotto questi minareti alti cinquanta metri. Le venditrici di scialli etnici (tutti made in India) e di amuleti locali circondano petulanti i nostri connazionali sul sagrato dell´imponente moschea intitolata a Bibi Khanym, una delle diciotto mogli di Tamerlano. Offrono le loro merci contrattando in italiano, incassando e dando il resto in euro, scoprendo denti di ferro o anche d´oro quando sorridono. A un passo c´è il celebre bazar Siob, sfondo di safari fotografici in technicolor, piramidi di spezie esotiche, frutti enormi e sconosciuti, cataste di torroni.
Si arriva a piedi nel sancta sanctorum cantato da James Elroy Flecker: «Per la bramosia di conoscere ciò che non dovrebbe essere conosciuto/ percorriamo la Strada Dorata che va a Samarcanda». Il Registan è un colpo al cuore di bellezza, geometria celeste, maestà imponente. È il motivo per cui si arriva fino a qui. È un´overdose di mosaici, smalti, arabeschi, il centro sociale e religioso della città medievale, con le sue tre scuole coraniche che nelle ex celle degli studenti oggi ospitano una schiera di botteghe di souvenir.
È il monumento più importante di tutta l’Asia centrale, il più visitato, il più citato, il più rappresentato, il più spettacolare. Nella chaikhana di fronte, il padiglione per il tè “Lyabi Gor”, i visitatori si ristorano avvicendandosi per assaporare il pesantissimo plov cotto nel grasso di montone e bere tè verde. Si fuma ovunque.
A est il groviglio millenario di stradine e le vestigia archeologiche pluri-strato della città vecchia, Afrosiab, a ovest gli ampi e geometrici viali tracciati dai russi nel Diciannovesimo secolo, orlati di gelsi e di platani, due mondi che non sembrano comunicare. Una città-calamita sconosciuta ai più, proiezione di fiabe e leggende. Non soltanto una città d´arte dunque, ma anche una città universitaria, la prima, fra l´altro, in cui è stato aperto un dipartimento di italianistica, già capitale, anche se solo per sei anni a partire dal 1924, della Repubblica Socialista Sovietica dell´Uzbekistan. Stagione ormai remota, consegnata alla storia.
All´imbrunire, la visita al Mausoleo di Guri Amir, dove è sepolto Tamerlano sotto un unico blocco di giada, è d´obbligo. «La tigre zoppa» lo chiamava il suo popolo, una tigre morta non in battaglia ma per una banale polmonite. Le guide snocciolano i loro aneddoti accanto alle rovine dell´antico ostello dei dervisci, che ripetevano il nome di Allah mille e una volta, fino a cadere in trance, fino a farsi uscire il sangue dal naso
Fonte: Repubblica.it